Un’ipotesi avvincente lega il celebre romanzo “I Promessi Sposi” alla suggestiva cornice dei monti lucani. Si narra che l’ispirazione per questa opera possa risalire a una supplica inviata ai frati di Fermo e Lucia, anche se purtroppo ogni traccia di tale documento è andata perduta nel tempo.
Le parole, così intense e coinvolgenti, che aprono il capolavoro – “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo, cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente” – potrebbero aver trovato origine nei paesaggi mozzafiato dell’Appennino campano, che abbracciano le province di Salerno, Potenza e Avellino, in particolare le maestose vette che si innalzano sul lago piccolo di Monticchio, nel cuore della Basilicata.
A pronunciare un saluto simile è Francesco Lomonaco, noto come il “Plutarco italiano”, eminente studioso del tardo Settecento originario di Montalbano Jonico. Il giovane Lomonaco, traduttore esperto di opere classiche, laureato prima in Medicina e poi in Giurisprudenza a Napoli, si trova all’epoca in un periodo di fervente adesione alla Repubblica del 1799, ma fortunatamente sfugge alla condanna a morte per un errore nella trascrizione del suo cognome, che lo salva da un tragico destino. Il cambio del cognome da Lomonaco a Lamanica lo rende irriconoscibile ai suoi inquisitori, permettendogli così di fuggire e rifugiarsi nella sua natia Lucania prima di intraprendere una nuova vita in esilio in Francia.
Durante il suo soggiorno presso l’abbazia di San Michele Arcangelo, sulle rive del lago di Monticchio, Lomonaco fa una scoperta che potrebbe gettare nuova luce sull’origine di “I Promessi Sposi”: un antico manoscritto contenente una supplica inviata dai giovani Fermo e Lucia ai frati cappuccini nei primi decenni del Seicento. La vicenda raccontata nel documento riguarda una coppia di promessi sposi ostacolati nei loro intenti matrimoniali da un potente nobile spagnolo del Viceregno, il quale agisce tramite i suoi sgherri, noti per i loro nomi suggestivi che alludono a comportamenti malvagi e viziosi.
I giovani rivolgono quindi il loro appello ai frati cappuccini di San Michele, la cui giurisdizione copre le terre circostanti, e questi, a loro volta, si rivolgono all’autorità ecclesiastica di spicco, il cardinale Federico Borromeo, arcivescovo di Milano e abate commendatizio del convento. Borromeo, incaricato direttamente da Papa Paolo V della supervisione dell’abbazia, aveva insediato i frati cappuccini a Monticchio nel 1608 durante una visita al Sud, come documentato nello studio storico di Giustino Fortunato intitolato La Badia di Monticchio del 1904.
Lomonaco porta con sé questo prezioso documento in Francia, stabilendosi prima a Marsiglia e poi a Parigi, dove stringe amicizia con l’illustre poeta Vincenzo Monti prima di ritrovarlo a Milano, nella celebre Biblioteca Ambrosiana fondata dal cardinale Borromeo. Nel frattempo, il successo del suo Rapporto al cittadino Carnot, un’analisi sul tragico fallimento della Repubblica Napoletana, gli apre le porte del circolo letterario milanese, diventando il medico di Ugo Foscolo e collaborando con Monti nei primi tentativi di traduzione dell’Iliade.
Con il sostegno vitale di Monti, Lomonaco ottiene infine la cattedra di Storia e Geografia presso la scuola militare istituita da Napoleone a Pavia, consolidando così il suo status nel panorama accademico dell’epoca. Con tutte queste affascinanti connessioni e vicende, ciò che potrebbe aver ispirato Alessandro Manzoni nel creare il suo capolavoro rimane avvolto nel mistero, tra le montagne e i laghi della remota Lucania.
Fonte: ilMattino
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